“A wilderness, in contrast with those areas where man and his own works dominate the landscape, is hereby recognized as an area where the earth and its community of life are untrammeled by man, where man himself is a visitor who does not remain”.
Wilderness Act
Esiste una parola in inglese difficilmente traducibile in italiano: WILDERNESS.
Indica, con semplicità, quel misto di meraviglia, stupore, timore davanti alla natura selvaggia e incontrollabile, quella natura che ingloba in sé qualsiasi traccia umana, incontenibile impeto vitale. Indica, con un solo pensiero, la necessità umana di un contatto spirituale con una natura in cui l’uomo è piccola parte, una natura dalle grandi misure, dagli enormi alberi, dalle distese infinite. E non poteva non essere che un termine americano, formatosi nella filosofia e nei testi di autori come Emerson e Thoreau, nato dal confronto con paesaggi ampi, vasti, estesi, con le proporzioni di una terra enorme, che attraversa l’interno mondo, da polo a polo.
All’inizio questo termine possedeva una sfumatura negativa perché indicava un luogo dove l’uomo non c’era e non poteva esserci, un luogo di solitudine, dove, per il troppo freddo o il troppo caldo, la presenza dell’essere umano era quasi impossibile. Da qui, piano piano, attraverso testi come Walden, Indian Boyhood, il saggio Nature o la raccolta Leaves of Grass, questa concezione cambia e l’inospitalità della wilderness diviene possibilità di ritrovare un rapporto autentico con una natura che da inumana diventa oltre-umana. Piano piano, la wilderness si trasforma nel regno del respiro terrestre, senza invadenze umane. Dunque la potenza del deserto, delle immensità di un orizzonte, come quello americano, che sposta sempre più in là lo sguardo, che non costringe lo spirito, ma non può neanche proteggere in una dimensione più familiare, prende forma in una parola, nella lingua di una terra dove i giganti esistono veramente.
Le sequoie, giganti silenziosi dalla pelle rossa, hanno aiutato e aiutano sicuramente tutt’ora a ripensare alla nostra dimensione rispetto a tutto quello che ci circonda. Tra le Sequoia sempervirens di cui la maggior parte si trova nel Redwood National and State Parks e le Giant Sequoias o Sequoiadendron giganteum dei Sequoia e Kings Canyon National Parks, ogni nostra pretesa di grandezza, di controllo, di onnipotenza, si ridimensiona. Tra Hyperion, l’albero più alto del mondo con isuoi 115,55 m, scoperto l’8 settembre 2006 da Chris Atkins e Michael Taylor, e il General Sherman Tree, l’albero e l’essere vivente più massiccio del globo, di cui la massa si stima essere 1486,6 m3, l’essere umano respira epoche antiche, misure titaniche. Non è un caso che il nome dell’albero più alto del mondo, Hyperion, sia stato un epiteto del sole (significa colui “che si muove al di sopra”) e il nome di uno dei Titani descritti da Esiodo.
In queste terre, in quest’atmosfera ogni cosa si fa calma, fluisce con ritmi originari, gli alberi respirano e la terra vibra, grembo di vita, pianeta dal nucleo incandescente. Le radici si sentono vivere sotto i piedi, di fronte a questi giganti dal corpo rosso, esseri viventi unici, che sembrano guardare alle stelle. Qui l’uomo si ricompone, ritorna vita, energia e elettricità. Qui la vita si calma e rinforza.
E il suo nome?
Nel 1847 lo studioso austriaco Stephen Endlich fa uno strano collegamento e chiami i giganti, Sequoyah, come “il figlio di un contrabbandiere europeo, commerciante di pellicce, e di una donna indiana che agli inizi del secolo aveva inventato l’alfabeto cherokee”. Li lega così per sempre a un alfabeto.
Forse non così consapevolmente, ma il legame tra parola e l’albero rosso non è così casuale.
La sequoia, enorme testimone di storie non sue, ci ricorda i mondi prima di noi. La sequoia nella sua grandezza è traccia, ai nostro occhi, di quanto la pianta, prima di noi e dopo di noi, pulsi e viva e vibri, ma anche rimanenza di ciò che nell’uomo è nucleo vitale: la parola. In lingua latina la corteccia è chiamata liber: il libro è la nostra corteccia, pelle protettiva per la sopravvivenza della specie.
“L’interno della corteccia è percorso da vasi – i botanici lo chiamano xilema o legno – che trasportano acqua e minerali disciolti dalle radici fino alle foglie. In esse la clorofilla e il sole compiono il prodigio di trasformare l’inorganico in organico, la materia morta in materia viva. La linfa da grezza si converte in elaborata e attraverso altri vasi – il floema o libro – arriva, adesso con zuccheri e proteine, dove l’albero ha bisogno di crescere con nuovi rami, foglie e fiori.
Il libro di un albero trasporta materia che consente vita e sviluppo, quello degli uomini trasmette conoscenza, rende elaborato il sapere grezzo, complesso il semplice, lo alimenta in una crescita ininterrotta dal pensiero alle parole, dallo scrittore al lettore”. (Giuseppe Barbera)
Sequoia, libro, corteccia e parole. Storie dietro le foglie.
Il 2016 è il centenario del National Park Service, agenzia federale statunitense che supervisiona la gestione di numerosi parchi. Tra i vari eventi, il 7 e l’8 Novembre con il Sequoia and Kings Canyon National Parks’ Science Symposium, una giornata per specialisti sulle ricerche in corso. Per chi dovesse essere là…
Fonti:
“Breve storia degli alberi da lettura” di Giuseppe Barbera. Edizioni Henry Beyle 2015
dictionary.cambridge.org
visitsequoia.com
nps.gov
alberiedintorni.blogspot.it
sfgate.com
iucnredlist.org
news.nationalgeographic.com
washingtonpost.com
na.fs.fed.us