Giardino biofilico

Qualche domanda ad Aurora Destro

Parliamo di genesi, come ha inizio la tua storia?

Ho avuto la fortuna di potermi annoiare durante l’infanzia. Disporre della tranquillità e del tempo per sperimentare ed inventare. Un preziosissimo otium durante il quale ho creato tante storie e mondi, utilizzando i materiali che trovavo nel paesaggio, saltando recinzioni, attraversando campi e giocando con l’acqua e le piante sulla riva del Naviglio Brenta. Sono cresciuta nella campagna veneziana in compagnia di mia sorella e delle mie amiche. È sicuramente per questo che i corpi che appaiono nelle mie opere sono quasi sempre femminili. 

 “[…] scriverò pensando a quel bambino, che tutti noi siamo stati, disteso sull’erba umida in un mattino di maggio, e che in un momento di estasi si inebria del profumo delle piante più minute.” 

Pierre Lieutaghi, Il libro delle erbe. Le loro proprietà medicinali, il loro uso culinario, dove trovarle, come coltivarle e raccoglierle, Milano, Rizzoli Editore, 1976, prefazione. 

In che modo la natura ispira i tuoi progetti e il tuo stile di vita? 

La natura ispira i miei progetti soprattutto attraverso la sua componente ciclica, che nell’esperienza del quotidiano dà vita a rituali, ripetizioni che avvengono su scale temporali diverse (giornaliera, stagionale, ecc.). Ogni giorno ricerco dei dettagli osservando quello che succede al cielo, alle piante, al paesaggio, cercando la sacralità del momento. Dopo aver vissuto la seconda metà della mia vita nelle grandi città, tornare ad abitare in campagna è stata una necessità. Ora il mio progetto personale è avere della terra, coltivare e raccogliere.

Qual è la tua personale forma d’esercizio per la meraviglia?

Portare in giro il mio cane con qualsiasi stato meteorologico, entrando in contatto con le diverse condizioni dei paesaggi in momenti diversi dei cicli circadiani e stagionali. Sembrerà banale, ma se fatto con intenzione e senza aver paura di bagnarsi e sporcarsi, può diventare un ottimo esercizio per la meraviglia.

Quali sono le persone che più ti hanno ispirato in ambito artistico e professionale?   

Non c’è una persona, ma piuttosto degli elementi culturali. Per esempio, l’universo della mitologia greca, di cui ho sempre letto molto. Ma anche i miti dell’India, dove ho abitato un anno. Entrambi si fondano su modi diversi di intendere la temporalità. Un modo di intendere il tempo e la vita un po’ fatalista, quello indiano, che per certi versi si avvicina alla spiritualità che si vive a Napoli, altro luogo dove ho abitato e a cui ho sentito subito di appartenere. In generale, sono le modalità di vivere e di relazionarsi alla vita che ispirano il mio lavoro, il modo in cui le persone accedono al sacro.

Quale opera d’arte/oggetto di design posizioneresti al centro di un’esposizione?

Dipende dal contesto. Un’opera ha senso solo se contestualizzata, in relazione allo spazio, al corpo, al paesaggio, anche culturale. Se dovessi immaginare diversi scenari… in una radura posizionerei una Silueta di Ana Mendieta, in uno spazio aperto una performance di Regina José Galindo, in un paesaggio arido e roccioso lo Star Axis di Charles Ross. In un white box o nel mio salotto, un Rothko: No. 5 (Reds), della collezione permanente della Neue Nationalgalerie di Berlino.

Quale emozione o sensazione speri si provi entrando in contatto con il tuo lavoro?

Non saprei. È una cosa a cui non penso mai quando faccio arte. Ha senso invece considerarlo quando si fa architettura o design. Durante il processo di produzione artistica mi immergo nel mondo che mi interessa investigare, nella materia e nelle possibilità di relazione con gli elementi organici che raccolgo, che a loro volta diventano personaggi. Ecco, forse spero che chi guarda le mie opere visuali provi l’attrazione per entrarci. Invece, per i progetti di arte pubblica, realizzazioni temporanee o permanenti su scala architettonica, lavoro con una metodologia ai confini con l’architettura. In questo caso, il progetto tiene conto di una funzionalità, quantomeno tipologica, e di questioni pratiche imprescindibili quando si opera nello spazio pubblico, come la sicurezza.

Cinque parole per te strettamente legate al concetto di Giardino dell’Eden.

Passione. Nutrimento e proliferazione. Vita e morte, che in fondo sono la stessa cosa. Passione, declinata come biofilia, letteralmente il “desiderio d’amare ciò che è vivo”. Il Giardino dell’Eden è un luogo di amore totale, dove organismi di regni diversi stringono relazioni passionali. Si nutrono gli uni degli altri creando e proliferando, poi si degradano, innescando altri processi e lasciando spazio a nuova vita. In questo equilibrio, la vita non può esistere senza la morte, così come generare qualcuno significa accettare la propria mortalità, nutrire il nuovo e prepararsi a lasciargli spazio.

Aurora Destro

Pierre-Alexandre Risser

Bio

Aurora Destro – Venezia, 1989 – lavora nel campo dell’arte pubblica e del paesaggio. La sua ricerca indaga la componente effimera dello spazio e la sua intrinseca connessione con il tempo, il paesaggio e il corpo. Dal 2016 realizza installazioni site-specific, sia temporanee che permanenti, per istituzioni culturali in Europa e nel Regno Unito. Le sue opere indagano i rituali degli spazi e si sviluppano in stretta relazione con i cicli naturali, i fenomeni celesti e le trasformazioni del paesaggio.

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