Testo di Eleonora Diana
Puntata 1
Borghi e montagne abbandonate, zone limitrofe e liminali, tra le autostrade, dove crescono erbacce e cose strane, case invase dalla Natura, e poi cambiamenti climatici, alluvioni e momenti di siccità. Ma come fare giardini ora? Attraverso l’eco giardino.
Il Terzo Paesaggio e il senso dell’abbandono
É molto probabile che ormai abbiate abbondantemente sentito parlare di Terzo Paesaggio. Ma che cos’è? Per Gilles Clément, il suo fondatore, è “costituito dall’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo”.
É composto dagli spazi liminali, residuali, incolti che riprendono possesso di loro stessi, dove biodiversità e incontrollato riconquistano lo spazio, che non hanno più una funzione – umana – specifica. Gli edifici possono trasformarsi in rovine, mai però macerie, a volte seguendo la tendenza al “ruin porn, quando diventano un oggetto che perde il contatto con il sociale, con il passato e il futuro”. Insomma, pura estetica.
Questi spazi liminali diventano gli incubatori, “rifugi” come li definisce Clément, sia della biodiversità e sia della diversità, luoghi di rinascita di un nuovo tipo di rapporto con il diverso.
Ecco che scopriamo che gli spazi abbandonati non sono affatto vuoti, ma sono liberi, senza l’uomo, ma pieni di ciò che è il non umano: insetti, erbacce, mancanza di controllo ed estetica umana.
Ce lo dichiara l’etimo della parola: abandoner “rimettere a disposizione di tutti”, dove il tutti non è solo “noi”.
La terza via: il giardino e il paesaggio della cura, tra abbandono e sfruttamento
«la natura o Pacha Mama, dove si riproduce e si realizza la vita, ha diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, della sua struttura, funzioni e processi evolutivi. Tutte le persone, comunità, popoli o nazionalità potranno esigere dalle autorità pubbliche il rispetto dei diritti della natura»
(Costituzione dell’Ecuador)
Nuove vie di comunicazione con la natura stanno nascendo, o almeno, per noi e per la nostra cultura “che siamo tutti naturalisti”, stanno giungendo dai “3/4 del mondo” che fanno diversamente da noi.
Secondo Nadia Breda, antropologa culturale, c’è infatti nell’aria il sentore di un passaggio concettuale: da una natura percepita come oggetto da una finestra, da aprire e guardare – in questo trend si inseriscono le riserve integrali in cui l’uomo non può agire – si sta riconquistando una visione della natura come “fiume”, dove noi siamo immersi, dove non possiamo percepirci separati, dove le differenze e le somiglianze tra esseri umani e esseri non umani, siano alberi, pietre, insetti o fiumi, sono molto più sfumate e difficili da incasellare, dove tutto è collegato.
Stiamo riconquistando una visione animista, in cui “l’altro che trovo nel Terzo paesaggio ha un sua interiorità con rituali, una sua famiglia, ecc..”.
Ecco che in questa visione gli alberi che riconoscono le proprie piante figlie o i propri familiari e le aiutano, acquisiscono, ai nostri occhi, un maggiore senso, e non sembrano teorie di pazzi visionari, ma scoperte che fanno traballare un antropocentrismo ormai vetusto e lutulento.
É così che le nuove legislazioni in cui la natura diventa soggetto di diritti legali e non più oggetto passivo, come in Ecuador o in Nuova Zelanda dove il fiume Whanganui ha una vera e propria personalità giuridica, non ci suonano più come frutto della fantascienza.
É un cambio di paradigma, che ci avvicina al paesaggio: da un’immobilismo museale alla riconquista di un rispetto antico e interiore.
In Italia esistono nicchie di animismo fin dai tempi antichi, che ora riacquisiscono valore e vengono riscoperte: ne è un esempio il raccoglitore di sassi del fiume Piave, capace di distinguere i sassi buoni da portare alle fornaci per ricavarne calcina.
In un’intervista, la Breda racconta di come il carioto avesse bisogno di aspettare che l’acqua del fiume diventasse femminile, che andasse in amore, che fosse capace di fecondità per mischiare i sassi.
“Il ciclo della raccolta dei sassi doveva essere compiuto da acqua e uomini, insieme. Lei rimestava, loro setacciavano. Lei mescolava, loro dividevano. Lei rovesciava, loro raccoglievano”.
Il post umanesimo, dice l’antropologa, è un rapporto tra umani con il non umano, un po’ come quello del raccoglitore di sassi.
In questa nuova percezione del mondo, la stessa idea di abbandono – egoriferita e umanocentrica – si tinge di nuovi colori: dal ruin porn e dall’estetica di Consonno, verso il riconoscimento di nicchie biodiverse di Gilles Clément. Non finisce qui.
Fonti:
fbsr.it
bibodallapaludeaicementi.blogspot.com
lifegate.it
core.ac.uk